Ciò che non ho imparato. Parte seconda.


Pulisco il coltello sulla lingua prima di asciugarlo con la camicia, il succo di mango è colato ovunque rendendomi appiccicosa ma soddisfatta della mia colazione.
Mi rimetto in cammino, oggi le ginocchia non mi si vogliono fermare.
Nuovi avventori sono giunti sulla spiaggia, un numero esiguo ma pur sempre troppi, continuo a camminare finchè un cartello in legno dipinto a mano non attrae la mia attenzione; “driftwood”
un baracchino fatto di legni corrosi dal mare spunta tra la vegetazione, sembra inutilizzato anche se una lampadina protetta da mezza bottiglia di plastica indica che forse il suo utilizzo è prettamente notturno.
Un rumore bizzarro mi distrae dalla mia analisi del baracchino; faccio due passi di lato alla ricerca della fonte di quel strano verso. Una pupilla rettangolare contornata da un'iride giallo oro mi si para davanti, la bestia ripete il suo belare caprino con tutta la lingua di fuori. Scoppio a ridere subito dopo essere trasalita, adoro le capre, e queste sono davvero stupende, sono due femmine e un maschio dalle corna belle (Perchè la capra è il più bel animale...dopo..).
Dietro le capre inizia una scala, anch'essa fatta di legno segnato dal mare.
La scala si arrampica su per diverse sgangherate rampe sino ad arrivare ad una grossa palafitta fitta di ghingheri pendenti e luccicanti, decido di avventurarmi alla ricerca di qualcosa più sostanzioso da mangiare.
Un manipolo di fricchettoni mi accoglie con sorrisi e facce rilassate, mentre intrecciano collanine e fumano erba. Il posto è un ostello, costruito su per la collina, chiaramente senza un progetto preciso e da mani diverse.
Le mie ginocchia finalmente si sono fermate. Rimango lì un paio d'ore leggendo il mio libro e mangiando un riso con le verdure di una piccantezza imbarazzante.
L'ora di rimettermi in cammino è giunta, e dopo un ultimo tuffo mi rimetto in marcia.
Ripercorro tutta la bianca spiaggia, ora deserta sino ad arrivare al muro di vegetazione.
Non c'è più traccia di cani e di vecchi sdentati, né tantomeno del sentiero che ho utilizzato per giungere qui.
Ci deve essere un sentiero più semplice.
Percorro un paio di sentieri che si rivelano condurre a casette o a spiazzi utilizzati per depositi materiali. Solo al terzo tentativo imbocco un sentiero che sembra condurre da qualche parte.
Il problema è dove.
Nel fitto degli alberi il sole tramonta prima, e anche se nel mondo reale è ancora ben alto sul mare qui sembra che il buio stia avanzando in fretta. Comincio a correre, non perchè ho fretta di arrivare né per paura di qualcosa che mi insegue. Ogni tanto quando sono sola corro. Spesso quando sono sola in un bosco corro. Sempre quando sono sola in un bosco a piedi nudi corro.
Non so dirvi perchè. È solo la cosa giusta da fare.
L'umidità e il calore mi fanno gocciolare come fossi appena uscita dall'acqua, non so se sto sudando o condensando ma l'effetto è lo stesso. Il sentiero si snoda tortuoso cambiando direzione più volte, dietro ad ogni svolta mi trovo di fronte alla stessa domanda “sarà questo il giusto sentiero?”.
Proseguo sino a quando il rumore del mare mi suggerisce che sono vicina alla fine.
Il sentiero si fa roccioso e scosceso sino ad aprirsi di foglie nel mostrare una baietta, scendo sulla piccola spiaggia e mi guardo in torno. Solo mare e nessuno attorno. Da quanto ricordo della cartina non dovrebbe esserci una baia. Dovevo semplicemente attraversare la lingua di giungla rocciosa che separa le due baie.
Qualquadra non cosa.
Imbocco quello che potrebbe essere un altro sentiero, oppure il proseguimento del precedente, cerco di orientarmi ripensando alla cartina e alle svolte fatte, ma in fondo chissenefrega, sono su un isola, più di tanto lontano non posso arrivare.
Continuo a camminare superando radici intrecciate, discese rocciose e tronchi che mi sbarrano la strada e richiedono sforzi che a questa temperatura risultano epici.
Dei rami si scuotono nell'alto delle fronde, guardo in alto in tempo per vedere una coppia di macachi che si allontana saltando goffamente di ramo in ramo. Lungo il percorso il canto degli uccelli appena rinveniti dalla calura mi accompagna, schivo millepiedi e formiche, ho i piedi ormai abituati all'assenza delle scarpe, che trovo non necessarie in questo contesto.
Almeno così pensavo fino a quando, posandone uno su un letto di foglie secche un dolore acuto e penetrante non mi ha fatto saltare sul posto. L'ho visto allontanarsi adirato, con le piccole chele e il pungiglione ancora agitato sulla punta della coda giallognola.
Uno scorpioncino mi ha ricordato che no.
Finalmente intravvedo la lunga spiaggia da cui sono partita. ma.
C'è un ma.
Ci sono due cose che il crescere in città non mi ha insegnato; dopo il tramonto fa buio, e all'acqua piace cambiare.
Quella del buio dopo il tramonto è un'altra storia.
Questa è la storia dell'acqua a cui piace cambiare.
Dove prima c'era la terra adesso c'è una distesa d'acqua salata che si perde sino a quella che pare un'isola lontanissima. La mia.
Il cervello mi si incastra in numerose considerazioni, tra queste spicca come gli scogli sui quali sono incastrata il fatto di essere incastrata su degli scogli.
Con null'altro che il lungo sentiero tortuoso alle spalle e una distesa impenetrabile di verde che mi separa dalla terra ferma.
Bene.
Brava.
La marea ha ingoiato parte del chilometro paludoso che avevo percorso all'andata, soffermandomi con occhio scientifico ad osservare quel magnifico habitat, chiaramente stravolto dalle acque più volte al giorno.
Ecco, questa è una di quelle.
Mi sento un po' come lo scienziato che stravolto dalla bellezza di un nido pieno di uova, non vede arrivare il proprietario del nido. Un grosso e incazzato coccodrillo del Nilo. Coccodrilla. Scusate.
Pirla.
Rido di me stessa e delle fantastiche situazioni in cui mi caccio costantemente.
Lego la borsa più alta sulle spalle e inizio a camminare nell'acqua alle cosce.
Il fondo è sabbioso e cedevole e ogni tanto qualche granchio mi ricorda che non è posto per me, pizzicandomi i piedi non lontano dal promemoria dello scorpione.
Avanzo per quello che sembra un'ora, a volte trascinando i piedi contro la resistenza dell'acqua a volte alzandoli per ridurne l'attrito. Rido ad alta voce pensando ai pirla che passano la vita a fare macchine in palestra e lettini solari.
Io qui sto friggendo tra il sole e il suo riflesso sull'acqua e lo sforzo vale come 10 lezioni di zumba.
Supero le mangrovie ora in gran parte sommerse, le miriadi di piccole bestioline che giacevano aspettando la marea ora sono operose e attive, rendendo il deserto sabbioso un fondale di brulicante attività.
Il sole è sulla via del tramonto quando infine approdo sulla terra ferma, vorrei riposare un attimo ma le ginocchia non si vogliono fermare.
Percorro la lunga spiaggia, il sentiero sterrata, stavolta senza capre, supero i bungalow e giungo infine al mio ostello sgangherato.
Vado diretta al mio dormitorio, fermandomi a riempire la boccia d'acqua, il piano è di sdraiarmi un oretta sul letto prima di docciarmi e partire alla ricerca di cibo.

Una capra sbarra la porta del mio dormitorio di paglia e lamiera.
È inginocchiata con la testa ben in fondo al cestino della spazzatura.
Mi fermo a guardarla e a guardare il ragazzo che come me è in attesa di poter entrare.
Scoppio a ridere di gusto.
Alla fine è la giusta conclusione della mia avventura.
È la giusta rappresentazione della mia avventura.
Una capra incastrata in un cestino della spazzatura.






Fine