Ethnic minority rice wine, partisan and wasabi


Parte del mio lavoro qui nella splendida Stung Treng (prego di notare che l'appellativo “splendida ” è totalmente sarcastico) consiste nel portare avanti campagne di sensibilizzazione e informazione nelle zone rurali del nord della Cambogia.
Non mi sono mai inoltrata nel parlarvi del complicato groviglio oscuro che è la situazione politico-ambientale cambogiana, un po' perché è argomento lungo, tedioso e difficile, un po' perché certe cose non le posso scrivere liberamente proprio perché oscure e grovigliose.
Comunque sia la situazione a grandi linee è che come tutti i paesi emergenti, la Cambogia ha una percentuale (bassa) della popolazione che vive nel 2019 con tecnologia e agi della vita moderna e un'altra che vive rincorrendo quegli agi e quelle modernità percependo uno stipendio che quando raggiunge i 100 dollari al mese è tanto. Poi c'è una terza percentuale del paese che vive come i loro nonni vivevano, e i loro nonni prima di loro, parlo dei villaggi nelle aree rurali, alcuni non raggiunti da strade o da corrente elettrica , talvolta esclusi anche dalla rete telefonica.

Uno di questi villaggi è il teatro della nostra storia:

Ethnic minority rice wine, partisan end wasabi
(Vino di riso della minoranza etnica, partigiani e wasabi )

Un paio di ore di strada sterrata e lasciamo le moto sotto casa di un qualcuno di cui a quanto pare dovrei ricordarmi il nome. Ma no.
Una lunga barchetta scassata ci viene a prendere sulle rive ripide del fiume e il nostro Caronte a piedi nudi spinge l'incerta imbarcazione in legno in mezzo alla corrente e mentre questa scivola leggera, s'accinge ad accendere il motore.
Sbuffa e gorgoglia prima di partire in un rumoroso rutto.
I flutti marroni ci scorrono affianco, siamo in quattro più il traghettatore e tutta la nostra attrezzatura, la lunga piroga è stipata tanto che la superficie dell'acqua è a mezzo palmo dal bordo scrostato di lacca rossa della barca.
Siamo io, l'uomo avvoltoio, Thol l'epico e Kuy l'inclinato.

Non so se ho mai dedicato dell'inchiostro (digitale) a parlarvi dell'inclinato. Sarà meglio rimediare:
Kuy, l'uomo inclinato.
Kuy è sui 40, penso, ha 5 figli e fa parte di una minoranza etnica, che a quanto pare si chiamano Kuy, parola che non si pronuncia come si scrive, e che se la pronunci male vuol dire “membro maschile”.
Il punto è capire come pronunciarla bene.
Vulture man è 4 anni che chiama l'uomo inclinato “Cazzo”.
Kuy lavora per noi, affidagli qualsivoglia lavoro è pressochè inutile perchè non lo farà.
Una volta gli ho chiesto di pulire la stalla delle capre e lui ha fumato una sigaretta guardando le capre, poi ne ha fumata un altra mentre le capre guardavano lui, e poi se n'è andato.
Ma Kuy è formidabile nella foresta, riconosce versi e suoni e canti di animali, è capace di seguire tracce e riconoscere impronte, come di costruire trappole e ripari. E fa tutto questo senza smettere di fumare o di guardare cazzate su facebook. Formidabile.
Un altro dei suoi superpoteri è la “lindità”. Passiamo ponti, pozze, fiumi, strade con mezzo metro di fango, ore in barchette strette che puzzano di pesce marcio, chilometri di strade sterrate e polverose che quando scendiamo dalle moto siamo coperti di mezzo dito di polvere rossa e indossiamo scarponi di fango appiccicoso.
Lui no. Lui è lindo come appena uscito di casa. Con la sua camicia azzurra senza una grinza e le sue scarpe serie in finta pelle.
Ogni tanto dormiamo nella foresta o per villaggi per 3-4 giorni di fila, io ormai ho creature acclimatate a vivere nei miei nodi tra i capelli, e la pelle coperta di lercio che sembrerei abbronzata se non fosse che quando sudo si stria di bianco.
Lui no, appena uscito dalla tintoria.
Magico.
Ma il vero superpotere di Kuy è l'inclinatura.
Arrivi in un villaggio e ancora non hai capito dove sta la casa del capovillaggio per andarci a parlare?
Kuy è già sdraiato sull'amaca del sopracitato capovillaggio.
Scali col fiatone una montagna facendoti spazio a manate tra le fitte frasche e le puntute liane per raggiungere il nido in coppa al mondo dell'avvoltoio reale indiano?
Kuy è già sdraiato su un termitaio e ha già avvistato avvoltoio, nido e futura prole.
Il tutto fumando una sigaretta e scrollando facebook.


Ma torniamo sulla nostra barchetta scassata.
Come da copione l'inclinato è sdraiato sul sacco con la nostra attrezzatura subito davanti al Caronte, seguito da Thol che fa selfie e video, poi io e vulture man che con una tanichetta ritagliata a mo di paletta spaliamo acqua fuori dalla barca, in un infinito lavoro di bilanciamento tra quel che esce e quel che entra.
Le rive coperte di maestosi alberi e palme e liane ci scorrono a fianco, talvolta rallentiamo ad osservare uccelli involarsi, principalmente garzette e aironi. Il sole picchia e il vento asciuga la bandana che continuo a bagnare e rimettermi in testa, le gambe formicolano per la posizione e per quanto mi piaccia questo paesaggio alla apocalypse now è arrivato il punto in cui voglio scendere dalla barca.

Dopo un ora o più approdiamo a un piccolo limbo di terra brulla che sale ripido sulla riva verdeggiante; ci sono due barche tra noi e il suolo e convincere i tuoi arti a coordinarsi dopo essere stati seduti incriccati tutto quel tempo è un'operazione complicata; non sento i piedi e ho le mani impegnate nel trasporto di sacchi e zaini e taniche d'acqua, le barchette lunghe e strette dondolano maligne sotto il mio peso.
Ci accolgono due grossi bufali d'acqua con dei ciuffi d'erba tra le labbra, un sibilo e uno schiocco li convince a spostarsi e un ragazzetto grande quanto un loro zoccolo li spinge lungo una stradina sterrata lungo la riva; le bestie si incamminano e il ragazzetto rimane interdetto nel vederci sbarcare.

Il capovillaggio deve avere mille anni. Se gli umani fossero alberi e fosse possibile datarli contando le rughe lui sarebbe vecchissimo. Ma non quanto sua moglie che fuma una foglia di banano arrotolata e sorride con il suo dente e mezzo.
Presentazioni e convenevoli vari, in khmer non esiste un modo veloce per dire le cose, ci sono mille riti di cortesia da osservare prima di fare una domanda; domanda che comunque non sarà diretta.
Una conversazione tipo si svolge così:
- heey buondì fratello maggiore (o nel caso sia più giovane di te ; fratello minore)
- buondì a te fratello maggiore / minore (notare che fratello e sorella si dicono alla stessa maniera: Bong/Ohn)
- tutto bene?
- tutto bene! Tutto bene?
- tutto bene tutto bene!
- hai già mangiato riso oggi fratello maggiore/minore?
- si ho mangiato riso oggi! Tu hai già mangiato riso oggi fratello maggiore/minore ?
- si ho mangiato riso oggi! Da dove arrivi fratello maggiore/minore?
- arrivo da … etc etc
e così via.

Poi puoi finalmente chiedere: oh ma ce l'hai da accendere?

Menomale che non hanno mai fretta.

Solitamente quando arriviamo nei villaggi attiriamo in pochi minuti l'attenzione di tutti, questo è buono perchè ci permette di sbrigare la fase convenevoli collettivamente; fase che normalmente passo ad annuire e sorridere non capendo una mazza di quello che mi succede attorno.
In questa fase Thol spiega al capovillaggio e al drappello radunatosi chi siamo e cosa siamo venuti a fare e chiede il permesso di accamparci con le amache sotto casa del capovillaggio
se c'è una cosa che non si può assolutamente dire dei cambogiani è che non siano ospitali. Sono così ospitali che spesso dire di no è impossibile, quando ti offrono zuppe di pesce fermentato, alimenti non identificati di dubbia origine o foglie da masticare chiamate “medicine” (richieste che il mio collega traduce dal cambogiano all'inglese in “she's offering you some drug”) o bacche offerte da chi ne ha la bocca piena, 4 denti e le gengive rosso fuoco.
Magari no dai.

Il nostro lavoro consiste nel sottoporre la gente dei villaggi a un questionario sul bestiame.
In realtà parlare del bestiame è anche un modo per metterli a proprio agio; quando gli chiedi “Quante mucche e bufali hai fratello minore/maggiore?” s'illuminano e rispondono con la fierezza di un anziano quando gli chiedi notizie sulle sue coronarie.
Dopo qualche domanda sul bestiame passiamo alle domande serie; l'utilizzo di insetticidi e veleni in modi impropri.
Non è inusuale che insetticidi, pesticidi e veleni vari vengano utilizzati per la caccia, è un modo pigro ed ignorante di procurarsi la cena, o di farla pagare al vicino ammazzandogli le mucche.
Vengono mischiati con riso o semi oppure versati nell'acqua degli stagni in secca, per poi andare a raccogliere tutte le creature che vi si sono nutrite o abbeverate.
Il vero problema di questa pratica è che in questo modo non si uccidono solo le due galline selvatiche o il cinghiale che si abbevera alla pozza; ma si uccidono decine di animali che fanno in tempo ad allontanarsi da essa e vanno a morire nella foresta, dove altri animali andranno a nutrirsi nei loro cadaveri rimanendo avvelenati a loro volta.
Molti cambogiani sono fermamente convinti che basti rimuovere lo stomaco per rendere questi veleni innocui, e che quindi nutrirsi di un animale morto per avvelenamento non sia affatto pericoloso. La realtà è che per alcune sostanze nemmeno la cottura è sufficiente a renderle innocue, non elimina residui tossici che vanno ad accumularsi nel corpo,causando avvelenamento cronico e decadimento degli organi come reni e fegato. Patologie che non vengono diagnosticate e che anche se lo fossero non sarebbe possibile curare per via dell'inesistente servizio sanitario pubblico.
E si, se il vicino trova le proprie mucche morte avvelenate, le macellerà comunque.

L'utilizzo dei pesticidi in modo improprio è illegale, ma nessun negozio ti fa mezza domanda prima di venderteli e ovviamente nessuno degli abitanti dei villaggi ha le conoscenze chimiche per usarli propriamente.

Finito il questionario facciamo qualche domanda per capire quali degli animali che proteggiamo è presente in zona, facciamo sentire i canti dell'ibis e mostriamo foto di avvoltoi.
Tutto questo lo presumo perchè ad un certo punto del loro fitto parlare in Khmer cominciano a fare versi strani tipo “Krillll kkkriiiiillllll” or “aaaarghiiiii arghiiiiiaaaa” e tutti; vecchie bambini e cani, si sentono coinvolti in questo momento in cui ognuno si cimenta nel verso dell'ibis e nel raccontare quando l'hanno sentito l'ultima volta.
Poi gli regaliamo una maglietta, un quaderno e una penna e il gioco del memory. Di cui vado molto fiera perchè è realizzato con i miei disegni degli animali cambogiani e in tutti i villaggi la gente ne è entusiasta. Ne ho regalato una copia a una viaggiatrice che ho conosciuto e dopo mesi mi ha mandato una foto di una famiglia nel nord del Vietnam attorno ad un tavolo intenta a giocarci.
La notizia del nostro arrivo si disperde come pollini al vento, e mentre intervistiamo, gente dalle varie parti del villaggio viene a vederci, ridono e ci additano come fossero allo zoo, ma nessuno è più sconvolto dei bambini.
I bambini ci circondano a distanza di sicurezza, si radunano in drappelli fissandoci con le bocche aperte, gli sguardi perplessi. I più piccoli in braccio ai più grandi e i più grandi non raggiungono il metro.
Normalmente li ignoriamo fino al momento del memory, quando Thol li chiama a raccolta per spiegargli il gioco.
Questo solo se io sono a distanza di sicurezza.
A volte il solo guardarli ne fa scoppiare a piangere un paio, e rifugiare dietro e gambe altrui altri 3.
Se sorrido scappano, se gli parlo piangono, se mi avvicino ricorrono alla tanatosi.
Stavolta invece di provare ad interagire gli scatto delle foto, per poi mostragliele, ridono, sembra che funzioni, gli faccio gesto di mettersi tutti vicini per scattare una foto di gruppo. Non faccio in tempo a finire che mi circondano per vedere il risultato.
Beccati.


Verso le 5 cala la sera, leghiamo le nostre amache sotto la palafitta del capo villaggio, spesso mi offrono di dormire in casa, sulla stuoia sotto la zanzariera, ma rifiuto, mi piace dormire in amaca e preferisco avere il mio spazietto tra galline e cani, e sopratutto non devo passare la serata a sorridere e non capire nulla.
“Chiara! Do you want to try the ethnic minority rice wine?” (Chiara vuoi provare il vino della minoranza etnica?) Thol urla da dentro la capanna, sono sul bancale di legno che guardo le stelle e parlo di complotti con Vultureman, “certo come no!” rispondo e mi arrampico sulla scala a pioli per raggiungere la festa.
Il grinzosissimo capo villaggio e sua moglie siedono alla luce di una fioca lampadina, un vaso in terracotta alto 30 cm in mezzo tra loro e Thol.
Kuy è inclinato su una stuoia che fuma una sigaretta. Non scrolla facebook solo perchè non c'è campo.
Mi inginocchio vicino a loro cercando le tipiche bottigliette riciclate e il bicchiere condiviso.
Il rice wine è un alcolico ricavato dal riso, nella maggior parte dei villaggi lo producono artigianalmente, ricorda la grappa, è secco e alcolico, spesso viene aromatizzato con radici e semi e banane etc ma anche così non è che sia un granchè.
Il capovillaggio mi fa segno di bere indicando il vaso, io mi avvicino dubbiosa.
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È di terracotta scura con dei motivi dipinti,colmo fino all'orlo di qualcosa che sembra tabacco umido. Una lunga e sottile cannuccia di bambù è infilata dentro. A fianco al vaso un secchio da vernice mezzo pieno di liquido trasparente e una tazza di plastica rosa che ci galleggia dentro. Cosa dovrei bere? Chiedo al mio collega
lui ride, ha chiaramente già bevuto, e lui non beve mai.
Il capovillaggio immerge la tazza nel secchio e indica con il dito nodoso la cannuccia di bambù, mi avvicino mentre versa il liquido nell'otre facendolo scomparire tra la mista marrone. Appoggio la bocca alla cannuccia e succhio, la bocca mi si riempie di quello che riconosco come rice wine, ma il sapore è pieno e piacevole e quando arriva allo stomaco una vampata di calore mi riempie le tempie.
Il capovillaggio è entusiasta ma non soddisfatto, la tazza rosa è ancora piena e a quanto pare la devo bere tutta.
Ogni tanto i cambogiani mi ricordano i terroni, non accettano “no” quando si tratta di bere o mangiare. Più volte le donne dei villaggi vedendomi mangiare hanno insistito per farmi prendere un secondo e un terzo piatto.
“signora son 3 giorni che mangio solo riso a colazione pranzo e cena, c'ho chicchi che escono anche dal naso ormai!” “Barang io sono 73 anni che mangio solo riso e sono sopravvissuta ai francesi, ad un genocidio e ad una guerra civile! Zitta e mangia” (questa conversazione non è mai avvenuta. Pare ovvio ma lo dico per amor di cronaca).

Bevo un altro sorso ed un altro ancora, Vultureman si è unito a noi, nemmeno lui beve, pur essendo inglese, ma stavolta non si fa problemi e si gusta il rice wine con grande entusiasmo del capo villaggio.
Inizia a farci domande tradotto da Thol, da dove vieni, quanti anni hai, così vecchia e non sei ancora sposata?! Ma il bello viene quando l'ebbrezza lo riporta indietro nel tempo e ci racconta di quando c'erano ancora le tigri e quando gli elefanti andavano ad abbeverarsi al fiume.
Poi lo vedo infervorarsi e mimare storie di pistole e lotta, aspetto con trepidazione la traduzione di Thol, che vacilla sotto il peso dell'alcol; “dice che quando gli Khmer rossi sono arrivati qui lui e gli altri della sua etnia hanno combattuto, e ne anno uccisi molti” traduce Thol, “ma ha detto Nuoap invece che Slap, vero? “ Thol scoppia a ridere, non si aspettava che sapessi la differenza in khmer tra il verbo morire per le bestie (Nuap) e morire per gli uomini (slap) e per educazione ha tradotto quello che probabilmente era un “li abbiamo sgozzati come i cani quei porci rossi” con un “ne hanno uccisi molti”. Ma è un peccato che si perdano queste sfumature nella traduzione.
Il capovillaggio continua a raccontare mentre la moglie si fuma un altra foglia arrotolata; gesticola e fa versi, io lo seguo appassionata rimpiangendo di non parlare cambogiano abbastanza da capire quello che sta dicendo, lo vedo tagliare e colpire e poi imbracciare qualcosa e poi esplosioni, guardo Thol in febbrile attesa, Thol barcolla e si appoggia sulle mani ridendo; “dice che hanno fatto esplodere la sua capanna.. con , come si chiama.. lanciarazzi?” “BAZOOKA !” urla entusiasta il Vultureman “e lui è scappato a nuoto nel fiume” il vecchio si compiace dei nostri sguardi interessati, sorride raggrinzendo ulteriormente le fitte piege della sua faccia. Il dito nodoso che indica l'angolo della capanna, dove giacciono almeno altri dieci vasi ripieni di ethnic minority rice wine.
Sarà una lunga notte.
Menomale che non sono nemmeno le 7.