Ethnic minority rice wine, partigiani e wasabi parte seconda.

Wasabi, sopratutto wasabi.


Il gallo canta che è ancora buio, lui e le sue galline dormono sul cajun sotto la capanna, a meno di un metro dalla mia amaca.
Gallo di merda.
Mi alzo che sta albeggiando per andare al fiume a far pipì (bush toilet), oggi ci spostiamo dall'altro lato dell'immenso Siekong, il villaggio qui è più moderno e grande, moderno perchè alcuni hanno i telefoni e a giudicare dalle telenovele che stanno guardando hanno anche internet. La storia è sempre la stessa e la notte brava si fa sentire mentre il sole riscalda la terra rossa e i miei colleghi accusano il colpo.
Ci dividiamo in due gruppi per andare ad intervistare più persone possibile, alla terza capanna mi accorgo che abbiamo finito i moduli, torno alla casa del capovillaggio a prenderne altri e dopo un paio di svolte mi trovo una scrofa scura grossa e grassa e circondata da uno stormo di suinetti strillanti. La scrofa mi guarda interdetta. Io guardo la scrofa, mi muovo lenta a imbracciare la macchina fotografica ma la scrofa interpreta male le mie intenzioni e mi carica lanciando un urlo da guerra che fa schizzare i suinetti in tutte le direzioni, mi allontano velocemente saltando una staccionata fatta di bambù e paglia e senza voltarmi percorro giusto quei 20 metri necessari al mio pessimo senso dell'orientamento per perdermi totalmente.
Vago per il villaggio sotto gli sguardi curiosi dei suoi abitanti.
So i nomi del cibo, quelli degli animali e i convenevoli di base. Comprare le sigarette e le verdure al mercato. Anche contrattare i prezzi e dire cose stupide per far ridere i miei colleghi.
Non ho idea di come chiedere indicazioni.
Tre ragazze siedono sulla scala della loro casa, curandosi i capelli a vicenda, mi guardano divertite e sorridono timide.
Non sto nemmeno a perdere tempo con l'inglese, sorrido e chiedo; “barang?” guardandomi intorno. Loro capiscono al volo e indicano la direzione che devo seguire per trovare gli altri bianchi presenti in questo villaggio.
Intravedo Vultureman sotto una grossa casa di legno e mi incammino, ma non faccio in tempo a raggiungerli che uno degli uomini radunati attorno a loro mi intercetta venendomi in contro, indica qualcosa a fianco ai miei piedi e afferma gioioso, "Puoh! " salto di mezzo metro di lato appena vedo ciò che stava indicando; un pitone reticolato di un paio di metri giace a terra immobile.già, che stupida, ពស់ , serpente, è ovvio no..
L'uomo lo punzecchia con il piede e il povero ofide si ritrae, non freno il mio fastidio e con la mano gli faccio segno di smetterla.
Sto a distanza mentre qui tutti si comportano come fosse un calzino ripieno di polpette. Sarà che sono abituata ai nostri, che quando li vado a disturbare reagiscono sempre un po' stizziti, e tentano di azzannarmi o perlomeno di pisciocacarmi addosso. A loro discolpa c'è anche da dire che quando li catturo è per portarli al cospetto della veterinaria, cosa che a nessun animale piace, tantomeno se si tratta di bestie selvatiche.




L'uomo ci racconta entusiasta che quel poveretto legato con un laccio alla gola non è altro che la sua cena, trovata la mattina stessa incastrato nelle reti da pesca. Lo tocco piano per valutare quanto si stia fingendo morto e quanto invece non sia in buona salute. Se è ferito o non sano, ci toccherà portarcelo via e in qualche modo farlo arrivare al centro di recupero; se invece, come spero di scoprire tirandogli la coda, fosse sano e gagliardo potremmo convincere l'uomo a liberarlo.
Thol è un grande mediatore, e in meno di 10 minuti e una promessa di buon karma e di un post su facebook lo convince a rinunciare alla sua cena oblunga e farsi una passeggiata con noi per liberarlo nella vicina foresta.
Il pitone si allontana con poco entusiasmo, gli dico “corri! Muoviti, non farti trovare” ma non sono sicura che capisca l'italiano e ho paura che qualcuno lo vada a riacchiappare non appena il languorino pre cena si presenterà e i Barang se ne saranno andati.

Verso le undici ci riuniamo a casa del capovillaggio, fa un caldo infernale e le energie mancano.
Ci rifocilliamo alla sua tavola, cioè al suo pavimento, con una buona quantità di riso cambogiano e qualche pesce per i miei colleghi e altro riso per me.
È facile essere vegetariani o vegan con il supermercato sotto casa.
Qui ogni tanto mi chiedo se mi sveglierò un giorno con gli occhi a mandorla per overdose di riso.
Va a detto che a mio vantaggio le zuppe di pesce di fiume fermentato non è che mi inducano molto in tentazione.
Il capovillaggio mi sprona ad assaggiare il miscuglio iperpiccante che ha lo scopo di uccidere il sapore di morte del pesce fermentato (no dai, qui son crudele, hanno sapori diversi dalla cucina occidentale, e spesso è questione di abitudine, amo molto la cucina cambogiana) mi avventuro con la punta del cucchiaio ad assaggiarne un poco e la gola mi prende fuoco, odio il piccante.
Ma stavolta ho di che contrattaccare.
L'ho trovato al supermarket a Siem Reap, non ho potuto non comprarlo, lo metto ovunque e ormai riesco a mangiarne a cucchiaiate.
Wasabi. Adoro il wasabi.
Sono settimane che me lo porto in giro e i miei colleghi mi credono pazza, ma Thol stavolta mi guarda e mi dice “ce l'hai il tuo piccante verde?” io sorrido e annuisco estraendo il tubetto dalla tasca. Ne spremo una generosa porzione sul bordo del piatto condiviso.
Thol fa gli onori di casa e invita il capovillaggio e tutti i presenti ad assaggiarlo, mentre parlano ne prendo un abbondante pezzo e aggiungendo un po' di riso me lo caccio in bocca.
Il capovillaggio fa lo stesso.
La lingua indugia curiosa ad investigare il nuovo sapore,
le narici si dilatano,
il volto si contrae
gli occhi si spalancano inumidendosi
un verso mezzo aspirato e uno sguardo di pentimento balena negli occhi del capovillaggio.
Io rido.
Tutti ridono.
Il capovillaggio chiama l'amico e lo convince a cacciarsi in bocca il doppio del suo wasabi.
Reazione simile se non maggiore.
Tutti ridiamo, il capovillaggio invoca la presenza di altre tre persone, per ripetere l'operazione e aumentare le risate.
Come al solito la mia carenza di dimestichezza con il dialetto cambogiano delle zone rurali del nord mi impedisce di cogliere appieno le sfumature linguistiche tra quelle che sono probabilmente imprecazioni e prese per il culo.
Fantastico.